Verso una Sensibilità Sociale (la mia esperienza nella scena artistica indipendente di Pechino)

Alessandro Rolandi

Ho vissuto in Cina, a Pechino, a partire dal 2003. Sono arrivato senza uno scopo preciso e ora questa città è il luogo in cui ho vissuto più a lungo da adulto. Questo periodo ha cambiato e dato forma sia alla mia ricerca artistica che a quella personale, quando, dopo i primi 3-5 anni passati nei vari villaggi e studi grazie alla gentilezza e generosità di vari artisti locali, ho vissuto l’inizio di quella che è diventata la scena artistica indipendente pechinese odierna, negli anni 2007-2010 (precisando che la Cina aveva già avuto, in molti anni, varie scene alternative frammentata in città diverse).

In parallelo all’esplosione del mercato dell’arte contemporanea cinese, alcuni artisti locali e internazionali rivolsero la loro attenzione alla città con il desiderio di avere un contatto più diretto con la popolazione e stabilire un dialogo nuovo e diverso. Questa convergenza di pratiche grass-root, ‘malgrado’ o forse proprio ‘a causa’ della loro insularità e della loro interazione spontanea e slegata, fu il momento pionieristico di una scena alternativa locale di grande freschezza.

A differenza delle precedenti attività nei villaggi come Yuan Ming Yuan e Songzhuan o dei festival come quello di 798, che sono sempre rimaste confinate ai distretti d’arte e alle zone degli studi, questa volta le cose si spostarono nel centro di Pechino, soprattutto nella zona Nord-Est di Gulou. Alcune di queste esperienze erano legate a spazi fisici di riferimento (come Arrow Factory, Homeshop, ZaJia Lab, IFP), mentre altre (come ad esempio Forget Art e Sayzheng) avevano le caratteristiche effimere di interventi mordi e fuggi in spazi urbani, performances, open call su internet, azioni lampo in mercati, parchi, saune, etc. Nello stesso periodo, lontano dal centro, altre preziose realtà auto-gestite di arte a sfondo sociale e attivismo, come la comunità di Picun, erano già attive da tempo.

Questa situazione mi ha reso testimone di una grande varietà di pratiche multidisciplinari, dandomi la possibilità di esplorare direttamente livelli di interazione con la comunità locale e la complessità della sua situazione socio-politica. La curiosità nuova e istintiva della popolazione, unita a una situazione economica favorevole e a un’atmosfera politica relativamente tollerante, hanno permesso a questo primo momento di esistere e svolgersi per alcuni anni, in una specie di condizione sospesa, senza essere mai completamente assimilato, né dismesso.

Se l’impatto effettivo di questa strana presenza artistica è difficile da misurare, la sua spontaneità e la conseguente negoziazione giornaliera e organica di idee e comportamenti intrattenuta con i residenti degli hutong, rimangono vivide nel tempo, a testimonianza di una forma originale di vicinato sperimentale. Alcune di queste iniziative sono finite, altre continuano, ma la staffetta è passata ora al secondo capitolo della scena alternativa pechinese: una realtà più complessa e articolata di spazi autogestiti, gallerie e residenze che si trovano ad affrontare un contesto molto diverso in cui una gentrificazione accanita, una forte pressione economica e un pesante controllo politico imposti dall’amministrazione attuale, spesso iniziano ad avere conseguenze anche drammatiche sulla comunità delle zone in questione. Alcune forme di espressione in grado di raggiungere il grande pubblico, come documentari, e concerti musicali hanno recentemente subìto un duro attacco da parte della censura. L’arte contemporanea di rottura e di ricerca, pure sotto controllo attento, rimane per ora in una zona di tolleranza, probabilmente per il fatto che il suo pubblico è ancora molto limitato e soprattutto professionale e che comunque la sua esistenza è utile alla Cina nella costruzione propagandistica di una certa immagine pubblica e internazionale di apertura.

Tornando all’evoluzione delle pratiche indipendenti, a livello personale la mia ricerca ha subito uno ‘spostamento’ fondamentale attraverso l’incontro con Guillaume Bernard, CEO e terza generazione di una compagnia che disegna e produce servomotori industriali in due fabbriche, una a Pechino e una a Gonesse (periferia parigina). Grazie a un interesse nei confronti delle nuove dimensioni sperimentali dell’arte contemporanea, fui invitato a trascorrere otto mesi in residenza ‘informale’ nell’impianto di Pechino, dove, invece di ingaggiarmi nella produzione di qualcosa, chiesi l’autorizzazione per i lavoratori, gli impiegati e i manager, di poter trascorrere, se interessati, mezz’ora/un’ora della loro giornata lavorativa con me, in dialoghi informali, scambi vari e piccole azioni creative e non-produttive. Durante questo periodo, in cui non avevo alcun posto, retribuzione, o missione formale, ebbi l’occasione di testare le tattiche d’intervento e sospensione poetica, precedentemente applicate nello spazio pubblico della città, all’interno della struttura complessa e problematica di una corporazione multinazionale di media taglia a conduzione familiare, delocalizzata in Cina. Mi ritrovai al centro di un contesto altamente simbolico: la ‘fabbrica’, in Cina e come realtà globale; a differenza di ciò che mi attendevo, questa situazione, invece di risolversi in una serie di sfide in forma antagonista a un complesso ideologico e burocratico, si rivelò esistere in uno stato di contraddizione e potenzialità che non avevo provato in precedenza. Questo fu dovuto ad alcune caratteristiche particolari riscontrate nell’impresa:

– un’attenzione non comune alle condizioni di lavoro e alla dignità del personale

– il fatto che l’amministrazione guardasse alla Cina come a un ambiente favorevole all’innovazione e all’esperimento anziché come una semplice fonte di mano d’opera a basso costo

– la scala degli impianti e del funzionamento d’impresa, più vicina a quella dell’atelier/workshop che a quella della grande produzione industriale

– una linea di assemblaggio disegnata perché i lavoratori portino a termine varie sequenze e operazioni in cui si alternano complesse competenze manuali e intellettuali, anziché ripetizioni alienanti di gesti uguali.

Avendo appurato la consistenza di questa situazione e che non fosse una messa in scena per vendere un’immagine accettabile, mi convinsi della possibilità di svolgere una ricerca artistico-sociale, cercando di raggiungere il mondo interiore dei lavoratori oltre il primo livello superficiale di cortesia, rispetto e curiosità secondo cui si erano svolti i primi scambi. In altre realtà industriali a cui ho avuto accesso, in Cina e altrove, infatti, mi è sempre parso evidente che mancassero molte condizioni fondamentali necessarie a poter definire una situazione umana accettabile e che quindi mancava l’ambiente-base per una ricerca del tipo che avrei voluto condurre.

Nel 2011 il primo dipartimento di ricerca e sviluppo in Sensibilità Sociale fu creato nell’impianto di Bernard Controls di Pechino. Fin dall’inizio, il dipartimento è nato non come collaborazione saltuaria ma come funzione trasversale integrata nell’organigramma della compagnia, per offrire un modello concettuale ed economico diverso di integrare la presenza dell’artista come ricercatore nel funzionamento interno. Si stabilirono due punti di riferimento fondamentali:

  • che la relazione si potesse intendere come un materiale artistico (quello centrale del 21 secolo);
  • che la presenza dell’artista come ‘disturbo creativo’ nella realtà ottimizzata dell’ambiente lavorativo potesse dirottare i comportamenti automatici, e promuovere la sensibilità individuale e collettiva e una forma di immaginazione sociale.

Il dipartimento ha raggiunto i sette anni di esistenza a Pechino, e da due anni è attivo anche a Gonesse, dove, dopo aver avviato la ricerca, ho invitato l’artista Blandine de La Taille ad appropriarsene e a svilupparla in collaborazione con Pechino. Molti artisti di varie nazionalità e backgrounds hanno intrapreso il processo delicato e complesso di costruire un’interazione con operai, manager e impiegati, dimostrando grande generosità e dedizione nei confronti di un approccio sperimentale che richiede grande attenzione, pazienza e capacità di adattamento. Tutti i progetti sono stati documentati sulla base dall’interazione relazionale di partenza, indipendentemente dal fatto che siano terminati con un prodotto o una creazione finale di alcun tipo. L’impatto di ciascuno è dipeso fondamentalmente dalla capacità di costruire un ponte empatico tra un certo numero (non programmato) di persone e non dalla base teorica su cui era l’intervento, dal medium utilizzato o dall’esperienza precedente dell’artista in progetti a sfondo ‘sociale’.

Dopo un lungo periodo di esposizione ad artisti, progetti e tentativi, un altro cambiamento importante avvenne quando invitai l’artista Tianji Zhao (che precedentemente aveva portato il proprio intervento e aiutato a facilitarne altri) a unirsi al dipartimento per collaborare regolarmente al suo sviluppo. Riprendendo l’esperimento dei primi otto mesi, Tianji Zhao propose di impegnarsi con le persone che avessero dimostrato un interesse particolare e di aiutarle a immaginare e creare le loro opere d’arte. Decidemmo allora un soggetto ampio “Lavorare/Vivere”, attorno al quale, attraverso una serie di conversazioni con una persona alla volta, l’avremmo accompagnata a sviluppare e articolare alcune idee e problemi usando il linguaggio dell’arte concettuale (a cui provvedemmo un accesso informale mettendo in relazione le nostre discussioni con esempi di opere d’arte di artisti contemporanei).

Quando la signora Li Zhan, operaia al cablaggio in fabbrica da molti anni, concepì l’idea della sua installazione Mi piacciono le cose rotonde (utilizzando varie oggetti di recupero dalle attività lavorative da lei raccolte spontaneamente nel tempo) e i fondatori di Arrow Factory diedero la propria disponibilità per un solo show, una seconda dinamica fondamentale cominciò nel nostro esperimento. Fino ad oggi quindi, da una parte, gli artisti sono invitati a passare del tempo con il personale e sviluppare progetti in loco, mentre da un’altra, alcune persone dello staff creano opere d’arte proprie che vivranno anche al di fuori dell’impianto.

Negli ultimi due anni siamo riusciti a realizzare ed esporre un’ampia documentazione varia e selettiva di opere di artisti, non-artisti e collaborazioni ibride, in alcuni musei e spazi non-profit a Pechino, in Cina e altrove. È importante specificare che questa inversione di ruoli diretta non è un obiettivo in sé, così come la partecipazione a mostre pubbliche e museali rimane un mezzo per dare visibilità al progetto, mentre la sua dinamica è radicata al luogo fisico della fabbrica. Si tratta della conseguenza di un processo di messa alla prova sia del ‘fare arte’ che del ‘lavorare’, costruito sul mergere in modo provocatorio le condizioni (spesso incompatibili) in cui entrambi avvengono normalmente. Questi scambi creativi informali sollevano il problema di come la professionalità esacerbata dia origine a forme di pensiero e di azione burocratizzate e autoreferenziali, riproponendo la dimensione dell’‘amateurismo’ per sovvertire la logica corrente e bilanciare il dislivello psicologico e sociale promosso dalla competizione e della specializzazione.

La ricerca in Sensibilità Sociale è un approccio basato sulla presenza e sulla pratica che privilegia l’esperienza di terreno e utilizza la teoria critica come bussola di navigazione. È concepito per reagire rapidamente, modificando tattiche e strategie in maniera continua, con lo scopo di preservare lo stato di ‘contraddizione’ originale da cui è nato, e cioè la tensione tra la messa in discussione e la sostenibilità. Quando si tratta di misurare che impatto abbia questo genere di pratica sulle persone, le organizzazioni, gli artisti e l’arte, preferiamo rimanere prudenti e ci tratteniamo dal generalizzare risultati, continuando a conferire molta importanza in feedback spontanei piuttosto che affidarci a questionari o altri indicatori appositamente concepiti. Il valore centrale dell’esperimento è nel suo essere una forma originale di art-usership generata dal primo incontro ‘non necessario’ tra artisti, impiegati, manager e operai, le cui regole d’ingaggio non sono stabilite a priori, ma devono essere negoziate ogni volta.

Le persone coinvolte nei progetti se ne sono appropriate in maniera molteplice, individualmente e in modo collettivo: come spazio di introspezione creativa e filosofica, come forma di educazione alternativa, come momento di piacere personale/condiviso, fino al farne uno strumento di influenza nelle dinamiche gerarchiche e nelle politiche interne.

Nonostante l’impatto limitato e il rischio costante di essere ‘addomesticato’ dalla logica dell’estrazione di valore del capitalismo contemporaneo o assimilato all’estensione del vuoto operata dal politically correct, il dipartimento è riuscito (e riesce) effettivamente a creare momenti critici e intensi capaci di sostenere una dinamica di scambio egalitario nel cuore di un ambiente il cui sistema di regole e codici sembra negare dal principio l’esistenza di questa possibilità. Abbiamo osservato come l’esposizione sufficientemente prolungata e condivisa a questa pratica sia in grado di mettere in risalto la dignità umana e l’uguaglianza, in quanto è capace di fornire un linguaggio diverso alle persone per poter esprimere la loro condizione presente e riflettere su quali altre possibili scelte future sono loro disponibili. E se queste opzioni non sono concrete (o sono utopiche) ciò che rimane reale è la possibilità di essere qualcun altro, di esistere e occupare uno spazio sociale diverso da quello esistente in cui si è già stati relegati. Lo sguardo dell’altro nei confronti del ‘collega’ che si esprime attraverso il linguaggio dell’opera d’arte, poi resa pubblica, cambia irrimediabilmente ed imprevedibilmente e non riesce più a ritornare a fossilizzarsi sulla classificazione della nomenclatura funzionale precedente (operaio, impiegato, manager, boss); si trova obbligato a riconoscere la ‘persona’ che ha di fronte in tutta la sua complessità. La trasformazione non va necessariamente solo in un senso di empatia e comprensione, anzi può anche generare sentimenti aggressivi e di rifiuto, ma ‘cambia’ la percezione dell’altro.

In questi sette anni abbiamo osservato tensioni e incidenti vari e almeno un terzo della popolazione degli impianti che è stata esposta alle attività non riesce ancora ad apprezzarle o comprenderle completamente, o addirittura rimane ostile ed indifferente. Questo spazio di negazione e non-partecipazione è altrettanto prezioso, o forse anche di più, in quanto garantisce il diritto individuale inequivocabile di scegliere ‘come’ e ‘se’ avere a che fare col progetto. Lo spazio invisibile e silenzioso del dubbio, della frustrazione, dell’attesa, della confusione e dell’esitazione, costituisce la materia oscura di cui è composto il cuore della pratica.

Essendo stata iniziata in Cina e sponsorizzata da uno straniero e un’entità straniera, la nostra ricerca affronta il problema centrale dell’eredità coloniale e post-coloniale ed è esposta al paradosso – nonostante le migliori intenzioni – di generare ancora più danno e fraintendimento. Come protezione da questo rischio possiamo contare sul nostro codice etico e sul fatto che l’esperimento sia attivo in due realtà così distanti come Pechino e Gonesse, dove siamo obbligati ad avere a che fare con tensioni psicologiche, culturali, sociali e politiche simili ma anche estremamente diverse.

Guardando a fonti d’ispirazione occidentali in un passato non troppo lontano, ci ritroviamo in John Dewey e nel suo Arte come esperienza, nel ‘Maestro ignorante’ di Ranciere così come nel ‘Teatro degli oppressi’ di Paulo Freire, fino al Design interrogativo di Kryzstof Wodizcko e al lavoro del Artist Placement Group, ma nonostante questi riferimenti siano rilevanti, le radici della ricerca in Sensibilità Sociale hanno origine nei miei 14 anni di vita trascorsi a Pechino. Sono cresciute con gli artisti, gli attivisti e gli intellettuali che ho incontrato e con cui ho lavorato e che mi hanno introdotto alla vita della popolazione locale: gli artigiani, i contadini, i lavoratori migranti, gli operai, la classe media rampante e gli abitanti dei villaggi extra-urbani. Questo incontro mi ha convinto di come la vita contemporanea cinese sia la vera ‘avanguardia sperimentale’, in cui più di un miliardo e mezzo di persone sono obbligate a inventare ogni giorno il modo di andare avanti, navigando costantemente tra la pressione di una politica autoritaria e contraddittoria, un’identità culturale lunga, complessa e frammentaria ed enormi forze economiche convergenti e divergenti, interne ed esterne. Da ciò nasce la necessità di combinare soluzioni pragmatiche ed efficaci per sopravvivere all’accelerazione e alla velocità del cambiamento ininterrotto, con la ricerca di un senso intangibile per riempire il vuoto emotivo e il deserto psichico e spirituale. La classe lavorativa cinese, ad esempio, affronta un pericolo incessante di sfruttamento, frammentazione ed ora è anche minacciata dall’automazione, una situazione che mette in risalto ulteriormente la contraddizione della migrazione, in quanto le terre avrebbero dovuto essere distribuite ugualmente tra i contadini e garantire il sostentamento e la dignità necessari ad evitare l’aumento della ‘popolazione flottante’. Nel passato i lavoratori erano organizzati in ‘danwei’ o unità lavorative, che non erano solo strumenti di sorveglianza, ma anche forme di organizzazione della vita culturale e sociale della classe operaia. Secondo il filosofo Wang Hui, questa classe operaia del passato aveva legato il proprio destino a quello dell’intero sistema socialista, piuttosto che difendere solo un interesse di classe o quello dei singoli lavoratori ma, nella Cina odierna, questa connessione tra forma politica e forma sociale si è persa. Il Capitalismo autoritario verso cui è evoluta l’amministrazione cinese ha generato una crisi fondamentale della rappresentazione politica.

La ricerca in Sensibilità Sociale non può e non vuole rimpiazzare questa eredità, ma, in qualche modo, stabilisce una continuità con essa, re-inventando un ideale di emancipazione in una modalità ibrida e inter-culturale, la cui qualità artistica-socio-antropologica, essendo più elusiva, pur senza obbedire o sfidare direttamente alcuna direttiva e logica di partito, resta, comunque, un agente attivo nel contesto socio-politico. Nata in Cina, si avvale di elementi autoctoni e di altri riscontrabili in vari movimenti internazionali di emancipazione in cui arte e cultura si sono impegnati per ridurre la diseguaglianza, negoziando l’agenda della politica e dell’economia.

Tornando alla Cina, Wang Hui vede nella disuguaglianza attuale, il risultato dell’erosione delle politiche pubbliche e la ritiene un punto di partenza per ricostruire una rappresentazione politica attraverso riforme interne (e non adottando ciecamente il modello occidentale), concentrando la propria attenzione su alcuni aspetti concettuali noti, come l’uguaglianza delle opportunità, dell’esito e delle capacità/facoltà. Il suo sguardo nei confronti degli stati socialisti si basa sulla convinzione che abbiano cercato di ridurre la disuguaglianza tra lavoratori e contadini, tra città e campagne, tra lavoro fisico e lavoro intellettuale e tra minoranze e maggioranze e che abbiano fallito, ma che comunque avessero degli obiettivi virtuosi. Oltre al tentare la difficile e ambigua operazione di pensare a ciò che si possa ancora estrarre dal comunismo cinese, Wang trova, però, riferimenti anche in altre fonti di pensiero, come il lavoro di Zhang Binglin sull’uguaglianza di tutte le cose, che quest’ultimo aveva costruito partendo da Chuang-tze e dal Buddismo Mahayano. In parallelo, spesso, nelle conversazioni in fabbrica tra artisti e lavoratori, di diversa generazione ed estrazione sociale, appaiono detti e citazioni dalle tradizioni taoista, buddista e confuciana, distanti dal tono accademico ovviamente, ed espressi come appigli di conforto, in tutte le sfumature del linguaggio odierno della gente comune. La ricerca in Sensibilità Sociale, in tal caso, diventa uno spazio diverso in cui questi riferimenti, mediati dall’imprevedibilità dell’influenza artistica, possono essere in parte rielaborati per poi riapparire in maniera inattesa.

Tornando agli anni ‘20, si può osservare come John Dewey e le sue idee abbiamo avuto un impatto in Cina (passando invece senza suscitare interesse in Giappone e Korea) al punto che il suo assistente e traduttore dell’epoca, Hu Shi, fu capace in seguito, di integrarne elementi di base in una influente branca della corrente neoconfuciana che gli permise di essere riconosciuto come uno degli accademici più brillanti del suo tempo. Questa disponibilità all’incontro e all’osmosi della conoscenza rimane una qualità fondamentale della cultura cinese che ho potuto osservare anche nella Pechino di questi anni e funziona da garanzia del fatto che, nonostante la minaccia, portata dalle crescenti restrizioni di ogni tipo alle iniziative culturali indipendenti autogestite, l’esempio di cui sono portatrici può resistere continuando a re-inventarsi qui e altrove. Infatti benché l’esistenza di tali entità rimanga donchisciottesca e il loro contesto ricordi sempre di più quello della villa degli scalognati in attesa dell’arrivo dei ‘giganti della montagna’ (di cui si sentono già i passi degli stivali pesanti), la loro eterogeneità è in sé un messaggio comune: in scala ancora limitata, ma sempre più diffusa, artisti e operatori culturali non si accontentano più di osservare e commentare dalla loro torre d’avorio, ma si impegnano a stare nella realtà per discutere ed esporre i pericoli e le ingiustizie del presente e tentare di inventare strategie di resistenza e percorsi alternativi verso una forma più accettabile e sostenibile di società civile.

Nonostante la precarietà che ne deriva, vedo nell’insularità di questi progetti ancora un preciso valore tattico e simbolico: la loro natura flessibile, molteplice e ubiqua si oppone infatti al modello economico corrente dello ‘scaling up’, impersonando il significato stesso della diversità e appoggiandosi a internet come modello accessibile e rapido di diffusione, visibilità e coordinazione di scambi molteplici a distanza, nonché di archivio e backup. Logistica leggera e capacità di rigenerarsi e trovare alleati possibili e altri inattesi, rimangono le sole armi di difesa nei confronti del livello di brutalità espresso oggi dalla mancanza di controllo dei meccanismi del potere politico e finanziario in Cina e altrove. Inoltre, lavorando con metodologie ibride e tattiche collaborative trasparenti e orizzontali, questi attori indipendenti suggeriscono un allontanamento dalla logica elitista ed egocentrica dell’artista e dell’opera d’arte, verso una direzione in cui le definizioni di opera e di autore tendono a dissolversi e in cui il loro valore materiale quantitativo perde rilevanza, mentre quello qualitativo, immateriale e solidale, generato dall’incontro con la realtà dell’altro assume un’importanza e un senso sempre più necessario ed urgente. In questo ambito più difficile da normalizzare, un numero sempre maggiore di artisti sembra disponibile anche a rinunciare alla produzione e alla visibilità individuali (ormai completamente incorporata nella logica dello spettacolo descritta da Debord e Pasolini) pur di iniettare una forma di energia vitale e sovversiva direttamente nella società, invitando la gente comune ad appropriarsene, a usarla e a esprimerla attraverso la loro voce, le loro azioni e la loro immaginazione. Gli ostacoli a questa ‘delega creativa’ così radicale sono immensi e molto potenti, ma il gioco è aperto e ha il potenziale di impedire che ‘l’arte impegnata socialmente’ diventi soltanto un’altra nicchia di specializzazione, aprendo, invece, una direzione in cui, tutta l’arte si risvegli e si riconosca ‘socialmente impegnata’ per volontà e necessità. Paradossalmente, scomparire nell’atto creativo della massa, potrebbe essere un ultimo gesto sovversivo per gli artisti e l’arte con cui dissolversi nella vita: una ‘via negativa’ per riguadagnare quella distanza unica e perduta ed evitare di farsi trovare dove il Leviatano ci aspetta inesorabile.

Alessandro Rolandi,

Beijing 05/09/2017