Intervista Elena Motisi > Institute for Provocation

Elena Motisi, Institute for Provocation

E.M.: Che cosa significa per voi la qualifica di “indipendenti”? Perché vi ritenete tali?

IFP: Riteniamo che essere indipendenti nel mondo dell’arte significhi sottrarsi all’influenza che le dinamiche di mercato esercitano sulla nostra attività quotidiana. A partire dall’interesse per il pensiero e la produzione artistica, da intendersi quali processi reiterati, l’Institute for Provocation si configura originariamente come un innesto su un’entità preesistente creata allo scopo di far convergere assieme i ‘produttori di cultura’ dell’Europa e della Cina, così da promuovere scambi di pensiero. La nostra missione è diffondere l’arte e lo facciamo mettendo a disposizione degli artisti una piattaforma di “saperi”, affinché questi possano conoscere più a fondo la propria attività, lasciandosi provocare da un contesto unico quale Pechino. Essere indipendenti non è un obiettivo, né tantomeno un mezzo per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Essere indipendenti è piuttosto uno stato transitorio con cui identificarsi. Tuttavia, ciò non significa che siamo indipendenti dai governi e dalla politica, dato che sono proprio loro a costituire la base del (fragile) contesto economico in cui ci operiamo.

E.M.: Come si declina il concetto d’indipendenza nell’ambito specifico delle discipline architettoniche e urbanistiche? In che termini ne risultano modificati la professione e il progetto?

IFP: Se l’indipendenza può essere intesa come uno stato di sovranità, allora l’IFP è esattamente tale stato. Noi, al pari degli artisti con cui lavoriamo, godiamo di grande libertà, economicamente protetti dagli Stati Sociali (sebbene ciò non valga nel caso della Cina). Si tratta di un riparo che, nonostante i suoi limiti intrinseci, permette alle idee di essere esplorate. Le risorse economiche necessarie per poter realizzare i nostri progetti provengono da fonti diverse, gran parte delle quali sono fondazioni pubbliche e agenzie governative. Ciò nonostante, possiamo comunque definirci indipendenti perché ci affidiamo a forme di autorganizzazione, perché i nostri progetti nascono in modo autonomo e, ancora, perché siamo in grado di produrre progetti la cui scala varia in funzione degli apporti economici che riusciamo a garantirci. L’aspetto più importante del concetto di indipendenza è il fatto che la produzione artistica e i criteri che la guidano sono sempre sotto il nostro controllo; a deciderli non sono mai le istituzioni, gli investitori o i committenti.

E.M.: È possibile parlare di lavoro no-profit nei vostri ambiti di attività?

IFP: Tutto quello che facciamo è non-profit. Tuttavia, ciò non significa che le persone non vengano pagate: lo staff dell’IFP riceve uno stipendio base. Naturalmente, però, per garantire dei risultati di livello, le ore di lavoro necessarie superano abbondantemente quelle che quest’ultimo riesce a coprire. È una sorta di investimento nell’istituzione, il cui scopo principale è far sì che gli artisti e i produttori dispongano di una risorsa da cui attingere. Possiamo quindi dire che mentre i profitti in termini artistici e culturali sono sempre tangibili, quelli economici brillano per la loro assenza. Di fatto, quindi, i soldi non sono lo scopo, bensì soltanto un mezzo.

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E.M.: A mio parete le urgenze possono essere occasione di ispirazione per nuovi progetti architettonici. Gli indipendenti di oggi devono auto-inventarsi temi di progetto in relazione alle necessità del contesto in cui vivono? A questo proposito, individuando una criticità e un potenziale, è possibile darsi una risposta con le modalità proprie di un progetto Self-Initiated? In che condizioni può quindi esistere l’auto committenza?

IFP: Inutile dire che individuare una criticità di carattere architettonico è ben più facile che trovare i mezzi idonei a fronteggiarla. In quanto istituzione, l’interesse dell’IFP è perlopiù incentrato attorno alla risposta artistica e al dibattito circa il ruolo dell’arte in contesti socialmente complessi, come nel caso degli hutong di Pechino. Pertanto, poiché il nostro compito non è quello di fornire soluzioni, quanto piuttosto di identificare, dare risalto e problematizzare dei processi in atto attorno a noi, una situazione di emergenza non per forza viene risolta per mezzo di un progetto autonomo. Ne è un esempio il progetto di Sayizheng curato da Tianji Zhao, nell’ambito del quale 20 diversi artisti sono stati invitati a realizzare delle opere/istallazioni/performance site-specific in uno spazio pubblico predefinito. [Frase incompiuta]

E.M.: A proposito delle modalità di lavoro: che cosa vuol dire per voi lavorare con i cittadini? Quali sono le strategie per un lavoro condiviso?

IFP: Non concepiamo la nostra attività come un progetto socialmente impegnato, sebbene alcuni dei progetti affrontino questioni inerenti lo spazio pubblico e lo stesso IFP sorga proprio in un complesso popolare di Pechino. Sostanzialmente, siamo degli artisti impegnati a fare arte: ci dedichiamo alla produzione e alla ricerca artistica, mediante progetti curatoriali ed editoriali. Gli eventi e le manifestazioni che organizziamo sono aperti a un pubblico vasto ed eterogeneo, desideroso di approfondire la propria conoscenza dell’arte contemporanea. La strategia messa in atto non è quella di erigere un muro tra gli specialisti dell’arte e chi è privo di alcuna formazione artistica. È proprio questo approccio che ci consente di dialogare e condividere idee con socialisti, antropologi, filosofi, designer, architetti, curatori e figure non intellettuali, nonché la ragione che ci ha consentito di creare una rete basata su attività di ricerca.

E. M. Lavorare in condizioni “estreme” può risultare in un’interruzione del processo di produzione, mentre le energie e le sinergie sono ridirette in attività legate a nuove realtà. Sono questi gli indipendenti di oggi?

IFP: Sì.

E. M. A mio parere, ci sono alcuni temi come le emergenze legate ai migranti, lo spreco edilizio e il derivante abbandono, il rapporto critico con il territorio e la crisi politica generalizzata, che possono essere considerati come punto di inizio per attività di progettazione di collettivi indipendenti. Qual è la vostra opinione? Credete che la soluzione a queste criticità possa essere trovata in un ambito istituzionalizzato o al di fuori di questa cornice?

IFP: Qualunque problematica può potenzialmente rappresentare quel quid capace di innescare un collettivo indipendente, posto che sia intenzione di quest’ultimo affrontarla e approfondirla. Il fatto che i collettivi indipendenti persistano o meno nello sviluppare i propri progetti dipende piuttosto dal modo in cui il professionista – con il proprio personale bagaglio di idee e di esperienze – si rapporta con il contesto attuale. L’istituzionalizzazione e l’anti-istituzionalizzazione non sono attività né separate né separabili: sono piuttosto delle fasi diverse di un medesimo processo politico. L’assenza dell’una preclude l’esistenza dell’altra. Non possiamo fare di questi concetti un’astrazione; occorre piuttosto sviluppare tra loro una dialettica in un contesto quale quello della realtà sociale.

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E. M.: Quanto la politica influisce sul vostro lavoro? La pressione politica rappresenta uno stimolo o un limite per gli architetti indipendenti?

IFP: Una delle principali conseguenze della situazione politica che sta attualmente vivendo la Cina è il fatto che i funzionari e i dipendenti pubblici sono stati istruiti per stabilire “l’ordine” e “ripulire” il Paese, mediante la recente campagna lanciata dal comitato centrale sotto la guida di Xi Jinping. Si tratta di un’operazione a indulgenza zero in cui ogni minima traccia di eterodossia viene marginalizzata. Tuttavia, come disse Socrate, “so di non sapere”. Vorremmo che l’IFP fosse un luogo in cui forze tra loro opposte e in opposizione possano trovare l’equilibrio necessario per il raggiungimento di un’interazione reciproca.

E. M.: Trovate che ci sia una corrispondenza tra territori caratterizzati da conflitti e la presenza di gruppi indipendenti? Si può dire che l’intensità della presenza di questi collettivi e delle loro azioni tende a sovrapporsi alla mappa delle emergenze o degli squilibri geopolitici? C’è un rapporto tra le condizioni di conflitto in cui si opera e il modo in cui cambia il paradigma della progettazione architettonica?

IFP: Assolutamente sì.

E. M.: Parlando di strategie, esiste una modalità di progettazione indipendente univoca o alcune linee guida che possano essere strumento di una nuova modalità di intervento in linea con le esigenze del contemporaneo?

IFP: Direi che non esiste un modo prestabilito di pianificare. Cerchiamo di essere flessibili, collaborativi e mobili. Essere indipendenti al giorno d’oggi, da un punto di vista artistico, significa divenire parte di un sistema sul quale intervenire e al quale dare equilibrio mediante un sapere egemonico, cercando al contempo di creare “una via d’uscita” dal sistema prestabilito. Essere indipendenti non significa prendere le distanze da questo sistema o schierarsi contro di esso. Questa “via d’uscita” è piuttosto una richiesta attiva, soggettiva e “diversa” sia in termini di condizioni fisiche che mentali.

E. M.: Quale tra i vostri progetti ha rappresentato un’azione efficace nell’ambito dei temi da voi indagati?

IFP: Se ci rifiutiamo di riconoscere delle verità consolidate e il senso comune, cos’è che resta? E in che modo possiamo trasformare questa ‘realtà residuale’ in una nuova epistemologia?

Nel caso dell’iniziativa “Tetris”, l’IFP ha cercato di svincolarsi da criteri conoscitivi prestabiliti chiamando in causa e ponendo un freno al concetto di dualismo, così che il futuro potesse progredire verso la multimodalità. Ma quando questa negazione ha raggiunto il culmine, ci si è ritrovati risucchiati in un vortice mentale gravitante attorno al dubbio che le tattiche messe in atto fossero esse stesse un’ulteriore e più efficace forma di dualismo – la lucidità della loro consapevolezza consentiva loro di discernere lo sfasamento tra linguaggio ed espressione (le forme di espressione linguistica già assimilate non possono che esistere in seno a un’esperienza prestabilita), spingendoli verso il pericoloso paradosso celato nella loro pratica performativa.

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E. M.: Lavorando in aree “di crisi”, i tempi del processo progettuale risultano modificati: trovate ci sia una corrispondenza tra l’accelerazione nell’iter progettuale e l’innovazione del risultato?

IFP: A volte sì e a volte no.

E. M.: Potreste descrivere brevemente i vostri progetti?

IFP: Le attività in cui l’IFP è impegnato si sviluppano lungo due diverse linee direttrici: le collaborazioni con i nostri artisti in residenza e i progetti di ricerca istituzionali. Quest’anno abbiamo lanciato un progetto curatoriale e di ricerca a lungo termine chiamato “TETRIS”, che speriamo possa generare delle reti provocatorie e delle metodologie di lavoro incentrate sulla cooperazione e su azioni congiunte tra curatori, artisti, ricercatori, docenti e gli artisti in residenza all’IFP. In virtù del suo ruolo istituzionale, l’IFP svilupperà dei progetti di ricerca inerenti diverse tematiche, i quali verranno abbordati da più punti di vista: quello della scrittura, quello curatoriale, quello editoriale e mediante l’organizzazione di simposi. Dall’altra parte, l’IFP si è confrontato su questi progetti con i propri artisti in residenza e con i curatori, analizzando le contaminazioni e ripercussioni potenzialmente derivabili dalla co-organizzazione delle nostre reti. Le conferenze, i dibattiti e l’esposizione della relativa documentazione, delle immagini e degli oggetti avranno luogo principalmente presso l’IFP e nello spazio progettuale Black Sesame Space. Ad ogni modo, da un punto di vista geografico, i progetti vanno intesi come un’estensione senza soluzione di continuità.

E. M.: Nel caso specifico di Pechino, l’architettura è intrappolata fra una realtà architettonica nata dalla macro-urbanizzazione e le tracce del passato. Quali sono gli strumenti per affrontare questa situazione?

IFP: Ciascun artista o architetto troverà lo strumento a lui più congeniale nel rapportarsi con le diverse realtà di cui si compone Pechino. Tuttavia, abbiamo identificato alcune pratiche che cercano di affrontare tale difficile poliedricità. Da un lato ci sono coloro che, nell’operare, danno prova di una spiccata sensibilità nei confronti del contesto in cui agiscono e della stratificazione storica della città, del paese, del paesaggio, dando così vita a dei minuti gioielli spaziali e materiali. Dall’altro lato ci sono coloro il cui approccio è caratterizzato da un’importante componente sociale che consente loro di avanzare proposte giocose e pragmatiche, mettendo a freno il loro personale bisogno di gesti architettonici e dettagli fantasiosi. Le soluzioni più originali tendono con maggiore frequenza a nascere da quest’ultimo gruppo, e molto spesso gli architetti non sono che una piccola parte di una comunità più vasta il cui scopo è costruire delle strutture funzionali sia dal punto di vista sociale che economico, in grado di rispondere a delle abitudini e a delle necessità mutevoli.

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E. M.: Cosa significa essere architetti, designer e artisti a Pechino oggi? 

IFP: Significa coesistere con una matassa fatta di fantasia, realtà e necessità: in altre parole, con il problema della consapevolezza artistica.

E. M.: Le tematiche da voi affrontate sono correlate ad altrettante emergenze caratteristiche del vostro territorio o dei territori in cui operate? 

IFP.: Sì, le nostre attività istituzionali sono intimamente legate alle circostanze socio-politiche locali. Sono proprio queste ad ispirare e connotare il nostro lavoro. È proprio per questo che abbiamo bisogno di uno spazio indipendente. Allo stesso tempo, però, è necessario essere consapevoli del fatto che, così facendo, tali questioni di carattere locale alimentano il dibattito mondiale sull’arte e la società.

E. M. Il vostro gruppo lavora anche in altri paesi. È stata una scelta? Quali sono le sue ragioni? 

IFP: Al giorno d’oggi ci si aspetta che gli artisti e i curatori si spostino portando con sé la propria attività così da promuovere una fecondazione reciproca di idee. A seconda del caso, ciò può avvenire per necessità, per curiosità o per ragioni personali. I fondatori dell’Institute for Provocation erano originari di Cina, Belgio e Svezia e l’istituzione ha ricevuto il sostegno, oltre che di questi Paesi, anche dei Paesi Bassi, Danimarca, Francia, Svizzera e Australia. Inoltre, abbiamo ospitato artisti provenienti da Giappone, Israele, Germania, Spagna, Italia, Romania e Serbia. A mano a mano che la rete dell’IFP si va espandendo, aumenta il numero di persone che decidono di entrare a farne parte. È inevitabile, quindi, che la nostra attività prescinda da confini geografici. Abbiamo l’ambizione di voler rendere l’IFP una piattaforma interconnessa in grado di operare contemporaneamente in Cina, Svezia e altrove, applicando il medesimo approccio interdisciplinare orientato alla ricerca sia artistica che architettonica, a prescindere da dove ci si trovi e dal perché vi ci si trovi.