Civiltà?

Huang Jingyuan

Dopo aver co-fondato nel 2001 un centro gestito da artisti a Caochangdi, quartiere artistico di Pechino, ed essermi occupato per un breve periodo della sua gestione, nel 2012 sono tornato a svolgere la mia attività di artista a tempo pieno. Da allora, ho avuto modo di collaborare a diversi progetti realizzati in comunione con alcuni spazi artistici indipendenti sia di Pechino che di altrove. L’evoluzione (e la lotta) degli spazi artistici indipendenti e il ruolo dell’arte nel costruire le comunità sono stati due aspetti fondamentali che hanno influenzato il mio modo di guardare all’arte e alla mia attività di artista. L’esperienza mi ha insegnato che, nei casi più gratificanti, la natura dei progetti scelti personalizza, interroga e sfida lo spazio artistico che li ospita, mentre quest’ultimo fornisce in cambio assistenza, mediazione e un contesto critico, forgiando la propria identità a partire dai progetti che sostiene.

Tale argomentazione, però, parte dal presupposto per cui questi spazi siano in un certo qual modo stabili: vale a dire, che siano quanto meno in grado di operare in una sede fisica prestabilita così da rendere possibile la gestione dei progetti sia in entrata che in uscita. Attorno al 2016, questa necessaria stabilità è divenuta ancor più labile dopo che una nuova politica di gestione della città di Pechino ha irresponsabilmente stravolto le vite dei cittadini e le attività sia degli Hutongs (le aree residenziali del centro storico) che delle aree ubicate alla periferia estrema della città, divenuta luogo di congregazione degli artisti.

Il mio progetto Civility Trilogy affonda le radici in questo specifico contesto. A darvi avvio fu la ricezione, in un lasso di tempo molto ridotto, di alcuni inviti da parte di tre diversi spazi artistici indipendenti, a cui fece seguito una decisione risoluta: quello che volevo fare non era solamente un progetto che si sviluppasse all’interno degli spazi artistici indipendenti di Pechino, bensì un progetto che riguardasse esso stesso tali spazi. Volevo servirmi del gesto artistico per raccordare tra loro questi tre luoghi, così da sfruttare le potenzialità di ciascuno di essi per creare un pubblico, sottolineandone al contempo le fragilità intrinseche. Per me, creare una “trilogia” equivaleva a creare un’“infrastruttura” che cercasse di compensare la mancanza di quell’infrastruttura necessaria per comunicare con il pubblico.

Da un punto di vista formale, la trilogia Civility consiste di tre schermi consecutivi al centro dei quali figurano dei ritratti di grande formato che, in virtù delle loro dimensioni, non sono né immagini ideali né mirano a presentare delle grandi tele. Si tratta piuttosto di un mio tentativo di sottolineare e attivare ciascuno di questi problematici spazi e sfruttarne le potenzialità nascoste per creare uno spazio “pubblico”. A mio vedere, il fatto di creare la giusta “distanza di osservazione” da un quadro, sia in senso letterale che astratto, equivale a (ri)creare l’esperienza della vita civile. La vita civile è qualcosa che si fonda sullo spazio “pubblico” e al tempo stesso lo crea; ed è proprio questo ciò che manca terribilmente nell’indirizzamento, per mano del governo, dei cittadini e delle loro vite.

La prima fase del progetto Civility ha avuto avvio nel novembre del 2015, presso lo Aotu Space (un parrucchiere di classe situato in uno hutong del centro storico), mentre l’ultima agli inizi di luglio del 2016 presso il Lab 47. La seconda fase si è svolta presso uno spazio artistico chiamato The Office. Si tratta di un claustrofobico stand all’interno di un edificio commerciale del distretto di Wangjing, a Pechino. La prima fase di questo processo è consistita nell’esame delle caratteristiche preesistenti delle location; in un secondo momento ho selezionato delle immagini specifiche, modificandone le dimensioni così che tra queste e lo spazio circostante si venisse a creare un rapporto inusuale; successivamente le ho dipinte e collocate in situ.

Il concepimento della trilogia Civility e l’esperienza che ne è derivata mi ha permesso di comprendere che il contesto che si sceglie per la presentazione (al pubblico) di ritratti di grande formato può determinare un importante impatto quanto alle sensazioni capace di suscitare nell’osservatore. Può derivarne un senso di dominazione, ovvero vi ci si può ravvedere una fonte di forza se non addirittura una rivelazione delle possibilità che le persone hanno di fronte a sé senza tuttavia esserne consapevoli. Per me, sfruttare appieno il potenziale di quest’esperienza è di vitale importanza, tanto più in un Paese in cui la società civile, e con essa gli spazi pubblici, sono in netto calo, considerato che tutto ciò non sarebbe possibile senza il sostegno fornito dagli spazi d’arte, i quali si fondono con il tessuto sociale della comunità locale. Mentre scrivo questo saggio, due degli spazi in cui ho lavorato per la realizzazione di questa trilogia sono stati chiusi, e nell’unico ancora aperto il secondo piano è stato demolito. Questa non è altro che una breve considerazione circa un processo di eliminazione ben più vasto e spietato, che colpisce in egual misura le possibilità che la vita quotidiana come quella artistica sono in grado di offrire.