Libertà d’espressione e libertà individuali nella Turchia post-kemalista

Federico De Renzi

La Turchia nasce su modelli di chiara ispirazione giacobina, si potrebbe dire. Venne creata dopo la guerra civile seguita alla fine della Prima Guerra Mondiale su esempi d’ispirazione soprattutto francese e tedesca (inteso come prussiana).

I princìpi e la base su cui venne fondata sono quelli laici o laicisti francesi post-rivoluzionari, specialmente per quanto riguarda i diritti dell’individuo: diritti delle donne, laicità dello Stato, accantonamento del peso delle confraternite mistiche e della religione in generale rispetto ai precedenti ottomani, ridimensionamento del ruolo dei funzionari religiosi (quindi mullah, imam, shaykh, ecc.); insomma laicità dello Stato al primo punto, con tutte le conseguenze su uno Stato in formazione (ricordiamo l’abolizione del califfato nel 1924). La volontà era di creare uno Stato moderno, così com’era inteso negli anni Venti e Trenta del Novecento. Ovviamente quelle interpretazioni della laicità e della libertà individuale erano legate al contesto storico. La definizione turca del nuovo Stato era influenzata dal fatto che il paese era – ed è tuttora – a maggioranza islamica e in particolare sunnita, sebbene una buona percentuale della popolazione (anche precedentemente al periodo di formazione) appartenga a gruppi religiosi solo a volte formalmente musulmani; per non parlare di tutte le minoranze non musulmane ridimensionate nel corso della Prima Guerra Mondiale e poi della guerra civile: armeni, greci e altri. La laicità dello Stato era quindi – diremmo oggi – all’islamica, benché fosse vista come completamente slegata dal contesto religioso. L’interpretazione delle libertà individuali ricadeva quindi nella visione dominante in Europa in quel periodo. Nel corso dei decenni la partita si è sempre giocata tra lo Stato – incarnato non tanto dal pensiero quanto dalla figura fisica di Mustafa Kemal Atatürk (anche dopo la sua morte) – e tutti coloro che vedevano in questo Stato una sorta di negazione dell’identità turco-islamica (intesa come turca di Turchia).

In Turchia l’indipendenza, o la libertà di pensiero legata all’indipendenza sociale o intellettuale, è sempre stata subordinata a un valore più alto: quello della laicità dello Stato. Essere quindi indipendenti e contemporaneamente contro i princìpi fondanti della Repubblica di Turchia – quelli espressi nelle linee guida del kemalismo – voleva dire, bene che andava, l’incarcerazione o semplicemente l’esclusione dalla vita pubblica. Questo corso è proseguito anche dopo la scomparsa di Atatürk nel 1938, sia durante la presidenza del suo successore – nonché ex vicecomandante durante la guerra civile – İsmet İnönü, sia dopo l’introduzione del multipartitismo nel 1950. Ricordiamo che fino a İnönü la Turchia era un sistema monopartitico che vedeva al comando il Partito Repubblicano del Popolo (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), fondato da Mustafa Kemal. È limitativo affermare che la situazione sia migliorata con il multipartitismo e i cambiamenti politici seguiti alla Seconda Guerra Mondiale e all’ingresso nell’Alleanza Atlantica: vi sono stati, dagli anni Settanta soprattutto fino a tutti gli anni Novanta, partiti d’ispirazione più o meno islamica o dichiaratamente islamici che hanno cercato di apportare un mutamento in questo campo. Tuttavia in Turchia l’indipendenza intellettuale da qualsiasi punto di vista è sempre stata soggetta alla visione dello Stato che avevano i partiti o le formazioni politiche al comando. Questo è dettato, come accennavo, dal fatto che la Turchia era un paese a maggioranza islamica. Ciò non vuol dire che vi sia un’interpretazione monolitica della religione. Come si sa, nel Vicino Oriente esistono tantissime anime dell’Islam: in particolare in Turchia e nell’area che la Turchia occupa al di là dei confini nazionali. Esistono tantissime anime dell’Islam che valicano i confini, tantissime interpretazioni della religione e della società legate all’Islam che sono sovranazionali. Questo nonostante in Turchia esista un Islam che alcuni definiscono “turco”, una designazione che include varie declinazioni che vanno dalla Cina fino al Caucaso e all’Anatolia passando per la Russia – ovvero quelle aree abitate da popolazioni di tradizioni e lingua turca transnazionali (presenti attualmente anche Siria, Iraq e Iran incluso).

Il quadro storico e geografico finora tracciato si riflette anche sul ruolo degli intellettuali. L’essere indipendenti ha sempre avuto in Turchia diverse valenze, sia in contrapposizione a una laicità dello Stato più o meno imposta che in reazione a una visione religiosa come quella adesso prevalente, espressa da parte dei vari governi del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP)  e in particolare dal presidente Erdoğan. L’indipendenza, il desiderio di espressione politica – l’espressione artistica è anche politica in termini marxisti – viene spesso pagata con l’incarcerazione e l’esclusione dalla vita pubblica. Il contesto di Istanbul in particolare – ma anche di altre grandi città come Smirne o Ankara – è esemplare: lo dimostrano le manifestazioni seguite ai fatti di Gezi Park. Si è assistito a un’esplosione del contrasto alla repressione governativa in tutti i campi: sia nelle arti visive – pensiamo alla fotografia ad esempio – che nel quotidiano, con espressioni più tradizionali come la stampa o la pubblicazione di opere letterarie. Ricordiamo su tutti le prese di posizione sull’azione dell’AKP da parte del premio Nobel Orhan Pamuk.

È interessante notare come queste manifestazioni di dissenso – che si esprimono attraverso il mezzo dell’arte tout court, intesa come espressione somma di opposizione – coincidano con una crescita economica relativa, per quanto indiscutibile, della Turchia; in particolar modo dal 2006-2007, quindi a ridosso della crisi economica e finanziaria mondiale. Quello che è stato definito da molti un boom economico in realtà non ha interessato – come spesso succede – il paese in sé ma soltanto alcuni settori: in particolar modo quello delle costruzioni e della finanza, spesso legati a doppio filo con attori terzi, soprattutto finanziatori o investitori provenienti dai paesi confinanti – culturalmente più che geograficamente – ovvero soprattutto i paesi del Golfo (ma non solo); paesi arabi legati a una visione religiosa, come accennavo all’inizio, aliena a quella turca. Ciò si è notato ad esempio nella scarsa presenza in Turchia – più che in passato – di strutture come musei di arte contemporanea, atelier di artisti o circoli culturali di autori indipendenti, soprattutto a Istanbul ma anche in altre città. Questo è il risultato di una doppia paura che si ricollega a quanto dicevo all’inizio: non essere accettati dall’establishment, come succedeva quando comandavano i militari, ed essere vittime di una repressione pressoché immediata. In Turchia esiste una sorta di autocensura legata anche alla mancanza – se vogliamo – di coraggio, non tanto da parte dei singoli artisti quanto dei privati. Questo si vede appunto anche nei musei, nelle gallerie d’arte o nei circoli letterari, al novanta percento in mani private: pensiamo alle università private – come quelle Koç, Sabancı, o altre – che dispongono di musei e punti di ritrovo per scrittori ma non sono mai, per quanto private, realmente indipendenti. È interessante notare che – in particolar modo dai fatti di Gezi Park, che si protraggono ancora oggi – non esistono collezioni pubbliche di rilievo di arte contemporanea (a parte un piccolo museo ad Ankara, il Museo di stato di arte e scultura), né musei, punti di ritrovo o di espressione artistica di rilievo a Istanbul dedicati alla fotografia, o ancora circoli letterari importanti. Ciò paradossalmente è legato alla crescita che prosegue dagli anni Settanta: un processo molto più lungo rispetto a quello innescato dall’ascesa al potere dell’AKP. È un’autocensura che va avanti da sempre potremmo dire, anzi paradossalmente da quando la Turchia è diventata formalmente un sistema multipartitico e democratico di tipo rappresentativo parlamentare. È interessante notare come negli ultimi cinquant’anni forse l’unica figura di spicco internazionale in Turchia – almeno per quanto riguarda le arti visive e la fotografia in particolare – sia considerata ancora oggi Ara Güler, discepolo di Henri Cartier-Bresson. Dopo di lui, il vuoto – sempre inteso come espressione artistica e quindi politica indipendente in campo artistico.

Più che condizionata da fattori di ordine politico ed economico, la presenza di voci indipendenti in Turchia è auto-condizionata, se così vogliamo dire. Questo perché, soprattutto con l’AKP, vanno avanti coloro che sono legati non tanto al partito di governo quanto personalmente alla famiglia del presidente Erdoğan. Il problema viene affrontato ogni giorno dalla stampa internazionale e in parte anche da quella turca, per quanto repressa o autocensurata. Esiste una sorta di mecenatismo ormai palese da parte dell’incarnazione del governo rappresentata dall’ex primo ministro e ora presidente della Repubblica. È molto difficile trovare nella Turchia di oggi un’espressione indipendente in quanto – come ribadisco – non esistono fisicamente gli spazi. Ciò anche in quartieri come Beyoğlu o Taksim, zone cioè non legate allo “zoccolo duro” del governo. Fra le poche esperienze che si segnalano è la Casa della Cultura di Babayan nella Turchia centrale, in cui artisti soprattutto stranieri (ma anche turchi) vivono, lavorano e si esibiscono pressoché quotidianamente. Poi c’è il programma di accoglienza della Casa dell’arte a Bodrum o, nella stessa zona, la Gümüşlük Academy Trust for Arts, Culture, Ecology and Scientific Research (Gümüşlük Akademisi Sanat, Kültür, Ekoloji ve Bilimsel Araştırmalar Merkezi Vakfı).
Gli spazi esistenti tendono a questa forma di autocensura e si trovano per lo più fuori da Istanbul o dai grandi centri, dove la volontà di espressione – se non viene repressa – fa spesso un passo indietro per cercare di respirare.

Oltre a queste dinamiche di autocensura, c’è da considerare anche il ruolo delle banche: nessun istituto di credito pubblico finanzia progetti, musei o spazi perché potenziali fonti di dissenso. Banche come Sabancı, Yapı Kredi o altre banche private evitano di realizzare pubblicazioni o libri che trattino artisti o personaggi eccessivamente scomodi. Ultimamente hanno iniziato a ripubblicare autori tradizionalmente “scomodi”, come ad esempio il celebre poeta Nâzım Hikmet in quanto legati al passato, mentre su quelli contemporanei resta il veto.

testo raccolto da Simone Ciglia