Un dialogo tra Didem Ozbek, Donatella Saroli e Fusun Akbaygil introduce il racconto Una bancarella di cocomeri di Sait Faik Abasiyanik

All’origine di questo dialogo ci sono due incontri e lo scambio di un dono – il racconto Bir Karpuz Sergisi (La bancarella di cocomeri) del romanziere e poeta turco Sait Faik Abasıyanık (1906-1954). Autore molto amato in Turchia ma poco conosciuto in Italia, Sait Faik, narra il mare ma anche gli operai, i pescatori, i bambini e i disoccupati che nella prima metà del ‘900 affollavano Istanbul e Burgazada, una delle Isole dei Principi, nel Mar di Marmara, dove lo scrittore trascorreva molto del suo tempo.

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I due incontri sono con Didem Ozbek e Fϋsun Akbaygil Fallavollita. È durante le conversazioni con l’artista turca Didem Ozbek, in vista della mostra Istanbul. Passione, gioia, furore, che mi è giunto il racconto. Orale, perché non ne esisteva né una traduzione italiana né una inglese. Per sommi capi, Didem mi raccontava di un’estate calda, del fresco del cortile interno della moschea, delle lunghe nuotate che gli uomini facevano nel Bosforo – un lusso consentito solamente al mondo maschile – e dell’insolita amicizia che, nel racconto, si stringe fra un uomo senza mezzi che vuole aprire una bancarella di cocomeri e un filantropo pronto a sostenere finanziariamente il progetto.

Sono bastati pochi accenni per intuire che La bancarella di cocomeri offriva uno sguardo sulla società turca proprio nel momento di equilibrio fra la tradizione dell’Impero Ottomano e la spinta verso la modernità che imprimeva al paese Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna. La bancarella di cocomeri fa da perno alla ricerca di Didem sulla condizione di artista indipendente ma anche sul processo creativo che l’anima. Didem legge il rapporto fra i due protagonisti come un riflesso del mondo dell’arte. Un rimando, in fondo, alla rete di relazioni che si avviano in coincidenza con la ricerca di finanziamenti e con la consapevolezza che operare in maniera indipendente vuole dire creare relazioni.

Al cuore della riflessione di Didem c’è, infatti, una lettura dell’indipendenza che include in maniera attiva la dipendenza, ossia l’ingresso nella relazione: «Non possiamo fare nulla da soli. Non c’è mai indipendenza senza dipendenza, ma si è parte di una rete di relazioni».

Il secondo incontro, fondamentale per questo dialogo, è quello con Fϋsun Akbaygil Fallavollita, un’artista turca che da molti anni vive in Italia. È grazie alla sua preziosa traduzione dal turco all’italiano, che siamo, finalmente, in grado di seguire i due protagonisti de La bancarella di cocomeri che discutono su come allestire il miglior chiosco e assaporare la Turchia nel 1936 senza perdere di vista il nostro quotidiano.

D.S.: Che ruolo ha per te La bancarella di cocomeri?

D.O.: La bancarella di cocomeri per me è un work in progress che mi permette di  mettere discussione la posizione dell’artista: come l’artista si pone nel processo creativo, nella produzione, nell’esposizione e nella vendita delle proprie opere; quali relazioni professionali deve costruire. Tutto questo attraverso la ricostruzione del racconto di Sait Faik. Mi cimento nelle dipendenze che un artista deve intrattenere per rivendicare la propria indipendenza.

D. S.: Molti dei tuoi progetti prendono l’avvio da una ricerca dell’accezione di una parola e di quando questa sia stata introdotta nella lingua turca. Da qui scaturiscono riflessioni sul ruolo dell’arte nella società, sui cambiamenti sociali e politici e sui percorsi che le parole ci aprono. Nel 2012, mentre cercavi il termine “esposizione” nel vocabolario turco hai notato che “sergisi” descrive sia la bancarella di frutta e verdura che la mostra d’arte. I vocabolari riportano i vari significati in un ordine dato dalla rilevanza che quel termine ha nell’uso comune. Ti ha colpito che, al momento, alla parola esposizione, il primo significato che troviamo è quello relativo alla bancarella. Cambierà?

D. O.: È proprio cosi che ho scoperto il racconto di Sait Faik. Generalmente in Turchia la frutta e la verdura sono esposte in pile molto elaborate, a forma di cono e diventano delle vere e proprie installazioni. (Un po’ come quelle che in Italia vengono realizzate d’estate con i cocomeri. N.d.r.). Come spesso succede il vocabolario riportava un brano in cui per la prima volta, nella lingua turca, si rintracciava quella particolare accezione del termine esposizione. E il brano era tratto da La bancarella di cocomeri di Sait Faik: «Era estate. Faceva progetti per aprire una bancarella di cocomeri. Sognava i cocomeri della migliore qualità…». In quelle poche righe c’erano due parole per me molto interessanti: esposizione e progetto. Come sai, lo spazio artistico indipendente che Osman e io abbiamo creato nel 2006 si chiama proprio PiST /// Interdisciplinary Project Space1.

Con quella citazione sono corsa in libreria e ho visto che il racconto era stato pubblicato mercoledì 20 maggio 1936 in una rivista chiamata Kurun. A quel punto sono corsa in biblioteca dove ho trovato la copia originale del giornale. Nel 1936, Atatürk era ancora in vita e in quegli anni di fervore gli scrittori avevano un legame molto forte con la scena artistica di Istanbul. Scultori, pittori, registi s’incontravano per discutere. E negli stessi anni c’era anche una forte tradizione di “pittori di cocomeri”. È vero che durante l’Impero Ottomano i pittori dipingevano ritratti ma in osservazione delle leggi islamiche, era più sicuro attenersi alle nature morte e, tra queste, il cocomero era un soggetto gettonato. Ho la sensazione che Sait Faik stia criticando con ironia il processo di produzione artistica di certi pittori che preferivano frequentare “terreni sicuri” come quello della natura morta con cocomero.

Il racconto era apparso sul numero del mercoledì e, qualche giorno dopo, nel supplemento domenicale era uscito un saggio critico sull’arte e gli artisti a firma di Sait Faik. Qui sosteneva che gli artisti – e in questa categoria includeva anche gli scrittori – avrebbero dovuto prediligere un’espressione indiretta di ciò che conoscevano. Attraverso l’uso di una lingua semplice, pura, Sait Faik restituisce in maniera vivida l’atmosfera e i personaggi che lo circondano. Il suo sguardo è così acuto da farne un narratore straordinario.

D. S: L’incipit del racconto ha una forte valenza sessuale. Il filantropo è sedotto dall’incontro con l’uomo che vuole aprire la più fornita delle bancarelle di cocomeri. L’atmosfera è da dormiveglia a cui però si affianca anche il progetto economico nella sua precisione: come esporre i cocomeri, come trovare un giovane aiutante che li venda, quanti soldi occorreranno. È chiaro che il filantropo ha un forte investimento emotivo e non solo economico in questo progetto creativo. Desiderio e sostegno finanziario si legano. Chi dei due ha più bisogno di questo progetto/sogno, il mendicante o il filantropo?

D. O.: In uno dei marathon-talks che ho organizzato nello spazio espositivo di SALT2, a Istanbul, ho invitato Ali Akai, un docente di sociologia e curatore. Per lui La bancarella di cocomeri è una storia d’amore dove il filantropo è emotivamente investito nella relazione. Molto più del mendicante. Per me è interessante vedere il filantropo come un gallerista, un curatore, un collezionista. Pertanto, gli artisti oggi si trovano a intrattenere relazioni con tutte queste figure.

D.S.: Relazioni in cui agisce il desiderio. E chi è il “giovane venditore”?

D. O.: È il responsabile delle vendite nelle gallerie. Vestito alla moda, elegante, sicuro di sé. Potrebbe anche essere un giovane curatore. È più impegnato a capire il prossimo passo nella sua carriera piuttosto che a pensare a cosa stia facendo e dove si trovi in questo momento della sua vita. È una tipologia che ha un successo garantito in qualsiasi professione.

Didem si dedicata a scavare, perlustrare, scandagliare. Trova un filo e lo segue. Nel suo percorso incrocia e crea storie e opere installative. Ha scelto per sé un compito difficile. D’altro canto il lavorio di scavo crea connessioni fra cose e persone. Il gesto di cercare il termine “sergesi” nel vocabolario l’ha portata a scoprire il numero di Kurun del 20 maggio 1936 e da lì, nel 2012 ha sviluppato presso SALT Galata, una prima parte di un progetto più ampio, non ancora realizzato per mancanza di fondi. Di lì a tre anni, proprio a seguito dell’esperienza di SALT, sviluppa il suo programma radiofonico che “scava” nelle pagine del giornale Kurun e discute una varietà di argomenti, creando un ponte tra la Turchia degli anni ‘30 e quella odierna, attraverso una rete infinita di relazioni con le persone che invita nel programma.

D. O.: Il mezzo radiofonico è molto adatto. Nel 1936, al tempo in cui Sait Faik scrive, la radio era il più potente mezzo di comunicazione di massa. E ho la sensazione che le onde abbiano la capacità di viaggiare indietro nel tempo, fino al 1936. Per me il programma radiofonico è la trascrizione visiva del racconto La bancarella di cocomeri. Si tratta di una mostra verbale. Focalizzando l’attenzione sul mio lavoro radiofonico riesco ad avviare nuove idee per la mia produzione artistica.

Didem opera per scatole cinesi: cocomeri, arte, indipendenza, sport. Questo suo modus operandi è per lei intrinsecamente legato alle sue riflessioni sul concetto d’indipendenza: tutto è in realtà profondamente connesso. E per operare in maniera indipendente occorre creare connessioni.

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D. O.: Nel 2013, dopo gli eventi legati al movimento di Gezi Park e Taksim Square, Osman ed io abbiamo deciso di sospendere il programma di residenza internazionale che organizzavamo attraverso PiST per concentrarci sul nostro lavoro. Ho cominciato a dedicare il mio tempo al nuoto. In quel periodo la mia preoccupazione principale era nuotare e non produrre arte. Eppure, sapevo che a un certo punto, da quella esperienza sarebbe emerso un progetto artistico, legato ai luoghi e alle situazioni che stavo vivendo in quei mesi. Così sono tornata, per l’ennesima volta, al racconto La bancarella di cocomeri in cui i personaggi, ogni volta che hanno tempo o quando la conversazione diventa difficile, vanno a nuotare nel Bosforo. Ai tempi di Sait Faik, durante l’estate, gli uomini erano soliti rilassarsi così. Il racconto mi ha restituito la difficoltà di reperire finanziamenti per i miei progetti ma ho anche capito la ragione per cui mi allenavo per attraversare il Bosforo: uscire dallo stress della scena artistica.

D.S.: Una scena artistica altamente competitiva?

D. O.: Nello sport ho ritrovato la stessa competizione. Ma anche altro. Nello “spazio pubblico” da cui mi immergo nel Bosforo, ci sono uomini e donne sulla sessantina. Nel resto della Turchia raramente si trovano donne che nuotano, ma nel centro della città è più frequente. Si sentono più sicure. All’inizio ho pensato che c’erano due cose che temevo: le meduse – il mare è molto inquinato – e le correnti. Le correnti sono molto forti; i nuotatori professionisti ti mettono in guardia: se non si sa nuotare contro la corrente è impossibile portare a termine la gara. Così ho pensato che era importante sperimentare prima della gara. Come artista gli spazi pubblici rappresentano un focus della mia ricerca. Così ho deciso di fare esperienza della zona da cui mi tuffavo nel Bosforo, con l’idea di avviare un progetto. Si tratta di una striscia di pavimentazione, ricoperta di calcestruzzo. Per sopravvivere in un ambiente simile, con due scale per immergersi in acqua, senza servizi igienici, spogliatoio o un ristorante occorre essere davvero molto creativi. Analogamente a quello che avevo fatto a SALT, ho pensato di invitare le persone a discutere alcuni temi proprio lì, in quello spazio pubblico. Il ministero non mi ha concesso il permesso per una questione burocratica. Come si interfaccia la burocrazia con l’arte? Da artista indipendente ho una grande familiarità con la burocrazia così ho cominciato a scrivere petizioni con un’unica richiesta: posso utilizzare lo spazio pubblico?

D.S.: E poi cosa è successo?

D. O.: Sono tornata a ripensare al progetto Independent vs. Dependent? che avevamo realizzato nel 2010 per la Tate Modern. E mi sono resa conto che per i miei progetti, inclusi quelli di PiST, avevo sempre investito i soldi dei miei genitori. Quando sostengo che sono indipendente in realtà dipendo dai miei genitori o da un sistema di finanziamento. Pertanto, se non ho una struttura di supporto non posso realizzare progetti. Ho trascorso tutta l’estate in quella zona del Bosforo e ho girato i due video Lodos e Public Space, allestiti al MAXXI. E da quell’esperienza su quell’angolo di calcestruzzo sono emerse molte relazioni3.

D.S.: Cosa significa per te “Indipendente”?

D. O.: Da sempre penso che siamo tutti dipendenti. Non possiamo fare nulla da soli. Non c’è mai indipendenza senza dipendenza. Si è parte di una rete di relazioni.
Anche se PiST è generalmente associata a uno spazio d’arte indipendente, per sostenere le sue attività dipende dal sostegno esterno.

D.S.: Nonostante tutto per te ha ancora senso usare il termine “indipendente”?

D.O.: Direi di si. Quando uso questo termine capisco subito di cosa stiamo parlando.

D.S.: Ecco, cosa trovi riconoscibile quando si parla di artista indipendente, di curatore indipendente?

D. O.: Lo spazio indipendente ha più a che fare con chi prende le decisioni. Ad esempio, recentemente abbiamo ricevuto un’e-mail di un’artista che stava lavorando ad una nuova mostra e che considerava PiST uno spazio chiuso. PiST non è chiuso. Negli ultimi anni non abbiamo organizzato nulla di ufficiale ma PiST è aperto. Ciò non significa che domani non potrei organizzare un progetto. L’indipendenza ci permette di fare quello che vogliamo. Non ho bisogno di correre, a differenza di un grosso museo, per avere un programma regolare. Posso avere un programma irregolare. Aprire ogni tre anni potrebbe essere il mio programma normale. L’indipendenza è importante per questo aspetto.

Per me ora la cosa migliore è continuare a nuotare. Mi considero una “nuotatrice in acque aperte”: quando ci si trova in acque aperte è necessario continuare a nuotare. Non è come una piscina. Occorre conoscere il punto di partenza e quello di arrivo!

Martedì 14 giugno 2016

Una bancarella di cocomeri

(di Sait Faik Abasiyanik)

All’improvviso cominciò a baciare le mie mani. Il suo viso diventò rosso. Ora io vedevo soltanto le sue piccole orecchie, anch’esse rosse, e i suoi capelli castani con riflessi grigi sulla sua nuca. In un attimo ero cambiato. Ero un altro uomo. Tutti i miei ragionamenti erano sconvolti. Le mie idee confuse. In quel momento da me si poteva ottenere tutto. In quei pochi secondi in cui le mie mani venivano baciate, se mi avessero chiesto un mondo intero avrei avuto la forza di crearlo quel mondo.

Intanto le sue labbra passavano dai peli delle mie mani alle mie unghie. A un certo punto sentii persino la sua avvampata guancia rossa che sfiorava la mia mano come il tocco di una stoffa. Queste mie mani non abituate ad essere adorate le lasciai a lui. Non erano più mie. Anche la mia mente si acquietò in una statica calma. I miei pensieri si fermarono. Passò un po’ di tempo prima che, con l’animo di qualcuno che non è abituato ad essere amato, tolsi le mie mani dalle sue guance.

“No” dissi “Non agitarti, i soldi, questi soldi che ti ho dato, che importanza possono avere! Lascia stare, non fare così, mi vergogno”.

“Non è per i soldi che mi hai dato, te lo giuro, non è per i soldi. Lo giuro sulla mia religione! Credimi non è per i soldi. Te lo giuro sulla mia fede!”

Ci trovavamo nel cortile di una di quelle moschee di Istanbul piene di silenzio e di mistero, dove le erbe appena tagliate, le cupole e l’ombra dei minareti sui prati si allungano sui mercati vicini. Era verso mezzogiorno. Quando in certe occasioni mi annoiavo, quando una diversa identità s’infilava nella mia testa, quando volevo avvicinarmi con amore alla gente, uscendo da questa chiusa solitudine per poter capire meglio l’esistenza degli altri, cercavo sempre angoli melancolici. In quel momento, sotto il porticato della moschea dove passeggiano i piccoli colombi, riflettevo sulla città, sui suoi ponti, sulla sua povera gente, sulle sue navi, che si pensano e si chiamano tra loro, e restavo a contemplare Istanbul.

Nei cortili delle moschee non sono mai stato solo. Forse ho sempre trovato persone con i miei stessi sentimenti, sdraiate sotto un cipresso o sotto un platano o all’ombra di una cupola. L’uomo a cui ho dato oggi i soldi l’avevo già incontrato lì diverso tempo prima, l’avevo poi rivisto una settimana dopo e in seguito in primavera e infine in estate. Ero arrivato al punto di credere che se un giorno me ne fossi andato via dalla città e fossi poi tornato dopo tanti anni per nostalgia lo avrei trovato lì sotto lo stesso cipresso o all’ombra della stessa cupola.

Eravamo tanto abituati l’uno all’altro. Lui si sdraiava sul dorso. Le mani incrociate dietro la nuca dove cadevano i suoi capelli con riflessi grigi. Di giorno, come se stesse guardando le stelle, pensava al cielo. La sua testa, come quella di un ebreo, era piena di intrecci commerciali. Ora aveva anche i soldi in tasca. Aveva voglia di lavorare. Era estate. Faceva progetti per aprire una bancarella di cocomeri. Sognava i cocomeri della miglior qualità…

Davanti a noi l’estate che brucia, tuffati nell’ombra piacevole e fresca, progettiamo la bancarella dei cocomeri.

“Quelli di Tekirdag li metteremo in fondo, nell’ultima fila. Riservata ai clienti sicuri che non negoziano mai… Mentre in prima fila metteremo quelli enormi scuri. Hanno le bucce spesse e dentro sono sempre rossi. Ma diventano rapidamente come noci marce. I meloni di Vodina sono i migliori. Il loro profumo non si sente da fuori ma da dentro. Quelli con la buccia con ruvidi solchi diventano presto molli e schiacciati, bisogna darli via subito a qualsiasi prezzo”.

All’improvviso si agita:

“Dobbiamo assolutamente prendere un piccolo aiutante, dice. Senza aiutante non si può andare avanti. Troviamo un ragazzino in gamba, magari dalla faccia nera nera, talmente vigile che per svegliarlo dal sonno basti un piccolo rumore, addirittura il colpetto col dito che si dà sul cocomero per capire se è maturo. Il lavoro principale di una bancarella sta tutto sulle spalle di questo ragazzino. Soltanto grazie a lui ci sarà premesso di godere della soddisfazione di aver lavorato bene, di aver usato belle parole per convincere i clienti, di essere stati pazienti e alla fine della giornata di poter finalmente farci una bella fumata canticchiando”.

“No” dico “prima dobbiamo lavorare senza aiutante. L’aiutante ci costerà”.

Di nuovo mi taglia la parola:

“Non ci costerà” dice “dividerò con lui il mio pane, che t’importa? Non fa niente, tu diventi padrone. Tu prendi due quote io una. A me e all’aiutante basterà”.

“D’accordo”.

Il giorno dopo, di nuovo lo trovo pensieroso, con le mani dietro la nuca, sdraiato sul dorso sotto una cupola.

Mi dice “l’aiutante domani è pronto”.

Siamo in una giornata d’agosto dove non si muove nemmeno una foglia. Un’aria molto limpida e calda, che porta le voci da lontano, addirittura di quelli che fanno il bagno sulla riva di Kumkapi.

“Andiamo a Kumkapi” dico “in un angolino facciamo il bagno”.

“Sono già stato stamattina” dice “Se vuoi vacci tu, fai un bagno e torni. Io aspetto il ragazzo”.

“E i soldi ?” dico.

“Sono finiti?” dice.

“Non ho una lira”.

“I soldi che mi hai dato ci sono” dice “questi soldi ci bastano e avanzano”.

Io mi avvio a Kumkapi. Lui si gira sulla sua destra sdraiato sul dorso. Chiude gli occhi.

Mentre io lentamente sto uscendo dall’ombra del minareto verso il sole, lui mi grida dietro:

“Hagi Bey!” dice “domani mattina fatti trovare alle sei e mezzo accanto alla fontana di Beyazit”.

“Va bene, va bene”.

Verso le 10 arrivo al cortile di Suleymaniye, non c’è nessuno. Vedo solo un uomo che si toglie i vestiti e cerca qualcosa.

Ho pensato fosse lui, ma non era lui. Verso sera davanti al porticato della moschea, in uno stato tra dormire e pensare, aspettavo che venisse il vento meltem. Appare lui sudato, appena rasato, vestito con una canottiera nera.

“Perché non sei venuto alle sei e mezzo?” mi dice.

Mi trascina via dal mio dormiveglia. Quando arriviamo alla bancarella dei cocomeri, mi battono le tempie per aver camminato così veloce sotto il sole, il mio corpo molle che da tempo non sudava tanto mi dà prurito. Su un stuoia sporca sono in fila una quarantina di cocomeri. Uno strano ragazzino piccolo, con capelli davvero nerissimi, urla davanti ai cocomeri:

“Solo un quarto al chilo, un quarto al chilo!… Che rosso! Che ti sei tagliato la mano, zio!?… Se avessi i soldi lo mangerei anch’io!”

Su alcuni cocomeri si posa un raggio di sole che non si capisce da dove venga, dall’inizio della strada, come fosse un ventilatore, spira un leggero meltem.

“Ecco” dice “anche la nostra bancarella sarà così”.

Pian piano risaliamo la ripida discesa che avevamo fatto prima. Ormai si fa sera e noi ancora pensiamo ad una bancarella di cocomeri:

“Kirkagac è un’altra qualità di cocomeri” dice “la mettiamo da parte. Questi reggono all’inverno. Non si guastano né si ammorbidiscono. Dentro si ghiacciano. Bisogna tagliarli accanto alla stufa. Meglio ancora tagliarli dopo averli tenuti un po’ nell’acqua tiepida. Un sapore senza fine”.

Poi tutto finisce. Si toglie la sua nera canottiera un po’ da bullo, si mette la sua camicia per bene, toglie la giacca dal chiodo sul legno della bancarella dei cocomeri e se la mette sulle spalle:

“Su, andiamo!” dice “guardiamo un po’ le navi dal ponte. Così prendiamo un po’ d’aria”.

(traduzione libera di Fusun Akbaygil)

1Didem Ozbek ha la sua pratica artistica individuale ma nel 2006, insieme al marito, l’artista-fotografo Osman Bozkurt, ha concepito PiST /// Interdisciplinary Project Space, uno spazio d’arte indipendente a Istanbul.

2SALT è un’istituzione culturale turca con base a Istanbul e Ankara. Avviata da Vasif Kortun con il sostegno economico della Garanti Bank. La sede principale ad Istanbul è la vecchia Ottoman Bank. Il progetto di Didem He was working on a project in order to open a watermelon exhibition del 2012 comprendeva alcune installazioni, performance e marathon-talks).

3Nel maggio del 2010, PiST era stato invitato dalla Tate Modern, insieme a più di 70 altri spazi d’arte internazionale per partecipare al suo festival degli Indipendenti, No Soul For Sale. Una buona occasione per riflettere su ciò che significa essere uno spazio d’arte indipendente e mettere in discussione le condizioni dei rapporti con un’entità quale “il transatlantico Tate Modern”. Didem prende in prestito questo termine dal sociologo dell’arte Pascal Gilier. Uno degli aspetti del progetto di PiST era una pubblicazione chiamata Independent vs Dependent?. Una pagina conteneva anche un dizionario in inglese e turco. Partendo dalle parole indipendenti e dipendenti, hanno fatto emergere tutte le parole che si sviluppano da quei due termini. Il progetto cercava di far emergere, attraverso l’uso comune della lingua, le differenze di percezione dell’indipendenza e della dipendenza nei due paesi. La versione turca iniziava con “alternativo” e chiudeva con “perdere soldi / profitto”. La versione inglese iniziava con “assoluto” e finiva con “zona”. Didem commenta che «Il dizionario turco aveva molte parole mancanti rispetto a quello inglese. La percezione di essere indipendente appare più debole nella nostra società. […] All’estero ci sono sistemi di sostegno economico. È interessante che a chiudere la sezione turca ci sia il termine che indica “perdere soldi”. Come artista indipendente non è facile avere profitti perché manca la struttura di supporto. Anche qui vale l’analisi sul termine “esposizione”: vale a dire, l’arte occupa il secondo posto.